Era da molto che non mi accostavo ad una lettura di brani svincolati da un inquadramento disciplinare o di settore. Questo intenso diario scritto a più mani, che a tratti, in maniera impressionante, ricorda le forme espressive di Virginia Woolf, racconta le riflessioni di giovanissimi e diventa strumento di cristallizzazione dei loro pensieri, attese, gioie, disillusioni, ragionamenti, speranze e spiazzanti conclusioni. Non sono semplicemente parole rivolte ad un “caro diario” quelle che si incontrano nella lettura di “Aprile 2020”, non è neanche una collana di pagine di un semplice “quaderno dei pensieri”, come lo definisce limpidamente Nicole. Ho la netta percezione che la scrittura, in questa circostanza, sia diventata per i ragazzi cura e tentativo di sanare (o razionalizzare) lo smarrimento del sé in tempo di pandemia. Un’esplorazione terapeutica che si declina attraverso il recupero delle myricae del quotidiano e si sviluppa mediante riflessioni di attaccamento viscerale alla vita e al futuro. Quest’ultima, una vera e propria benedizione rispetto all’arrendevolezza dilagante della ‘vecchia guardia’.
Adelaide ha una voglia matta di essere capita e stabilisce con la scrittura una relazione attiva: riversa nelle righe le proprie ombre interiori e i lati oscuri altrui, i sentimenti di attese indefinite, ragiona sul tempo e, pensando di essere da sola e persa in sé stessa, non si rende conto che una volta trascritte su un testo queste emozioni si concretizzano e diventano un dono per l’umanità. Anche l’adoratissima Virginia entrava in contatto con il proprio sé riconoscendone ed esaminandone criticamente gli aspetti più reconditi. Interiorità e scrittura, anche negli anni Venti del 2000, sono sinonimi di uno stesso percorso che lasciano una traccia indelebile della propria esistenza. Con tenacia Adelaide cerca di strappare risposte ai suoi molteplici dubbi e si affida forsennatamente al fluire dei pensieri che sono in certi passaggi vorticosi. Anche Chiaretta confida che la scrittura possa ripristinare ordine, magari dare nuove certezze e ci invita a sentimenti di gratitudine e riconoscenza per almeno cinque minuti al giorno.
Quello che ciascuno dei giovani scrittori coglie, forse inconsapevolmente, è il prodotto del proprio modo unico e irripetibile di rapportarsi al mondo, il segnale della dischiusa di ciò che era già sommessamente in atto ma non veniva fuori poiché incastrato nella morsa della routine indifferenziata della quotidianità. Apprezzo il modo di aprirsi e trasformarsi a questo inedita modalità di stare, di esserci nello hic et nunc e sono rapita profondamente dalla visione di Ted quando ci persuade a comprendere come la condizione umana sia frutto della volontà dell’Universo che riesce a portarci esattamente dove “aveva programmato”. È lungimirante il controllo che propone di applicare sugli eventi della vita, l’esercizio selettivo di quali scelte compiere per favorire momenti o passaggi dell’esistenza. Parla di grandi opportunità ed è meraviglioso cogliere così tanta padronanza e inquadramento ontologico negli scritti di un nativo digitale.
A questo punto mi chiedo come, quali letture o quali insegnamenti abbiano illuminato i loro talenti tanto da scatenare una matrice di pensieri così profondi e originali? Da insegnanti dovremmo essere in grado di vedere la luce di cui ogni discente è dotato e che può far fiorire le attitudini di ciascuno, perché ognuno di loro ne ha certamente almeno una. Questo vedere significa quindi credere in loro e nelle loro possibilità in potenza, avere fede nelle propensioni creative ed alimentarle. La scuola dovrebbe essere laboratorio attivo di talenti in divenire, promotrice dell’originalità di ciascun ragazzo e luogo di tirocinio per il discernimento dei fenomeni del mondo. Ma in questo, non tutti gli adolescenti, possono riuscire da soli. C’è bisogno di qualcuno che quella luce riesca ad accenderla, di qualcuno che posi lo sguardo su di loro e abbia gli strumenti per mettere in atto un progetto così grande. Proprio come ci invita a fare Genesi che è in cerca di sguardi veri, di un altro essere umano con cui confrontarsi, di quel professore ordinariamente straordinario nel quale riconoscersi e affidarsi.
Ora mi chiedo: perché non riusciamo ad essere sempre luce per i giovani? Perché non facciamo più breccia nei loro splendidi intelletti? Perché non riusciamo a folgorarli? Perché non rappresentiamo più quell’exemplum o il mentore? La risposta potrebbe risiedere nel consunto bollino nero attribuito alla “scuola dei progetti”; oppure nel discorso trito e ritrito che ricade sulla superficialità e inettitudine delle nuove generazioni. Circa questo secondo punto, i giovani autori di “Aprile 2020” dimostrano di essere l’esatto opposto, anche quando parlano della frugale quotidianità.
Il nodo da sciogliere sta nel fatto che, come adulti/docenti, abbiamo pensato a fare bene tante cose: impacchettare i saperi, incastrarli nei dipartimenti disciplinari, poi nelle programmazioni, confezionarli in moduli e poi in unità didattiche. Tradotto in breve: una vera agonia senza ritorno per la passione e la bellezza di questa professione. Lungi da me lasciar intendere che le procedure programmatiche e didattiche siano da cassare, la questione è che ne siamo stati fagocitati e abbiamo perso il mordente, ci siamo fatti abbattere dai formalismi e non abbiamo colto lo stimolo ad adattarci ai tempi che cambiano, alle esigenze socioculturali che si avvicendano, alle nuove generazioni che ci chiedono magari le stesse cose di un tempo, ma in una modalità upgraded. Ci siamo concentrati sul sistema, sulla burocrazia, dimenticando che è l’unicità dell’essere umano a rendere il processo interessante. Sono sempre più convinta che un buon cittadino si fa non solo stimolando il senso critico e trasmettendo anche qualche buona idea nella testa, ma specialmente accompagnando quella ragazza e quel ragazzo alla maturazione dei propri talenti e alla conoscenza di sé stesso, incluse le proprie fragilità. Questo viene messo in atto da una scuola che lavora anche in funzione di relazioni significative.
Forse l’emergenza Covid ha perfino esacerbato il senso di avvilimento dell’adulto. L’adolescente invece riesce a rialzarsi perché la sua giovane linfa gli dona vigore. Tuttavia, la resilienza di Giusy ci dovrebbe scuotere e l’infinita gratitudine ai momenti di sofferenza di Genesi ci dovrebbe motivare. Quando Fenghuang sostiene che “Mettersi in discussione, in questo periodo, è la cosa migliore che possiamo fare, per acquisire maggiore consapevolezza delle persone che ci circondano tutti i giorni”, sento che anche noi docenti siamo richiamati all’ordine. Talvolta osservo come abbiamo perso il focus della nostra professione e stiamo deviando davvero dalle “persone che ci circondano tutti i giorni”, dai nostri ragazzi, sia che si trovino dall’altra parte di uno schermo o che siano davanti a noi nelle file dei banchi.
Se la pandemia ha imposto una pausa generalizzata che per molti è stata la culla delle riflessioni e talvolta dei ripensamenti, mi associo allora alla necessità di un rewatch (citando ancora Adelaide e Ted) anche per noi docenti, con l’auspicio che il ripercorrere vicende, paure e il personale agire possa invitarci ad una rimodulazione del nostro compito e ad un più nitida messa a fuoco della nostra vocazione.
Grazie, ragazzi di “Aprile 2020”.